L’attività del professionista, non importa se individuale o inserito in una struttura, è caratterizzata da un grado di personalizzazione molto alto. Abituato per natura ad essere responsabile in prima persona (e in esclusiva!) del risultato del proprio operato, il professionista è un artigiano il cui lavoro è sempre “su misura” e i cui ferri del mestiere sono cultura, preparazione, aggiornamento, capacità critica ed esperienza.
La predisposizione mentale alla ricerca della massima qualità, in linea di principio, è senz’altro un pregio, tuttavia esiste la possibilità che lasciata senza controllo degeneri in perfezionismo e rallenti, addirittura fino a bloccarla, l’attività dello Studio.
Voltaire diceva che “le mieux est l’ennemi du bien”, ossia “il meglio è nemico del buono” ed è incredibile quanto questo sia vero in una organizzazione come lo Studio professionale. La ricerca ossessiva della perfezione è un pericoloso potenziale sabotatore dei risultati che rischia di portare alla paralisi, decisionale come operativa.
I sintomi della malattia sono molteplici: se un collaboratore è troppo perfezionista, la prima conseguenza è naturalmente un grado insufficiente di produttività. Anche nell’ipotesi più ottimista di un output finale senza alcuna sbavatura, il tempo impiegato non soltanto smette di essere congruo al valore delle attiità svolte, ma (più grave) rischia di minare la tempestività della risposta al cliente.
Se invece di “perfezionismo” sono ammalati i titolari, le conseguenze possono essere di altro genere ma non meno preoccupanti: si va dal progressivo fallimento del sistema delle deleghe – dovuto all’incapacità di percepire come adeguato un prodotto elaborato da mani (e menti) diverse dalle proprie – alla generale disaffezione dei collaboratori per un sistema che crea dubbi sulle proprie prestazioni, impone costanti rilavorazioni, non è in grado di offrire procedure standard e non fissa obiettivi realistici.
Uscire dalla ricerca spasmodica della perfezione in uno Studio può essere complicato. Per cultura, l’inefficienza è in qualche modo tollerata se serve a preservare l’eccellenza; inoltre, in gran parte, spaventa lo stigma associato all’alternativa: “se non cerco la miglior qualità possibile” – questa è la ratio – “allora vuol dire che accetto di lavorare male, e questo è inammissibile”.
Ma è davvero così? E’ indubbio che sono molti i fattori che contribuiscono al raggiungimento di un obiettivo aziendale, e tra questi forse il più incomprimibile di tutti è il tempo. A meno di non allargare la struttura, il tempo di cui una organizzazione dispone per svolgere la propria attività è una costante, e di conseguenza le azioni mirate a ridurne lo spreco sono funzionali agli obiettivi dell’azienda stessa.
Più qualità quindi, e in meno tempo. Due scarpe difficili da calzare in coppia.
L’unico modo possibile per riuscirci è l’implementazione di un modello organizzativo che sia in grado di stimare, monitorare e misurare i processi, che accetti gli errori al solo scopo di non commetterli più, e che rilanci, ad ogni nuova attività, il mantra “facciamola meglio”. Ossia, in altri termini, una attenta attività di controllo di gestione.
Addomesticare il proprio puntiglio e ammorbidirne gli aspetti paralizzanti per renderlo più funzionale ed efficiente è un processo difficile, che richiede da un lato di riconoscerne i difetti e dall’altro di imparare a gestire l’ansia dell’incertezza.
E’ anche, però, un processo che – letteralmente – ci rende migliori. L’unica cosa che ci chiede in cambio è di non pretendere di essere perfetti.
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L'illuminazione
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